giovedì 26 marzo 2009

Grammatica e teologia

Se ricordate, sabato scorso, nel mio post Unum collegium, affermavo di non aver alcun problema a emettere la professione di fede, secondo la formula approvata dalla Santa Sede. Dopo un ulteriore confronto col mio interlocutore sacerdote, devo riconoscere che non ha poi tutti i torti. Non perché non sia vero che il Collegio dei Vescovi in comunione col Papa sia soggetto di suprema autorità nella Chiesa; ma perché la formulazione dell'ultimo comma della suddetta professione di fede non è cosí rigorosa come dovrebbe essere. Essa recita: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo". Il problema sta nella congiunzione disgiuntiva "o", che connette il Romano Pontefice al Collegio episcopale. In grammatica, le congiunzioni disgiuntive esprimono un'opposizione, un'alternativa: sembrerebbe quasi che il Collegio episcopale possa proporre degli insegnamenti indipendentemente dal Romano Pontefice o addirittura in opposizione a lui. Per quanto mi risulta, questa non è la dottrina cattolica, ma l'eresia conciliarista.

Il testo originale latino non è di grande aiuto a risolvere la questione: "Insuper religioso voluntatis et intellectus obsequio doctrinis adhæreo quas sive Romanus Pontifex sive Collegium Episcoporum enuntiant cum magisterium authenticum exercent etsi non definitivo actu easdem proclamare intendant". Come si può vedere, si usa la congiunzione ripetuta "sive... sive...". Non sono un latinista; ma, per quel poco che ne so, anche in latino tale doppia congiunzione ha un valore disgiuntivo: "o... o...".

Non elimina i dubbi neppure la "Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professione di fede", pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede il 29 giugno 1998. Anche lí, al n. 10, si usa la congiunzione disgiuntiva "o" (in latino, questa volta, "seu").

Assai illuminante, invece, si rivela la "Nota previa" alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa (quella nota voluta da Paolo VI, quando si rese conto delle ambiguità contenute nella Lumen gentium, e che gli alienò le simpatie della lobby progressista): "Il Collegio necessariamente e sempre cointende il suo Capo, il quale nel Collegio conserva integro l'incarico di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa universale. In altre parole, la distinzione non è tra il Romano Pontefice e i Vescovi considerati nel loro insieme, ma tra il Romano Pontefice separatamente e il Romano Pontefice insieme con i Vescovi. Ma siccome il Romano Pontefice è il Capo del Collegio, può da solo fare alcuni atti, che non competono in nessun modo ai Vescovi, come convocare e dirigere il Collegio, approvare le norme di azione, ecc." (n. 3).

Pertanto, se proprio vogliamo essere pignoli, nella formulazione della professione di fede dovremmo dire: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che o il Romano Pontefice separatamente o il Romano Pontefice insieme con i Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo". Capisco che possa risultare una formulazione un tantino goffa e ridondante. Forse una formulazione piú semplice, ma rispettosa della "Nota previa", potrebbe essere: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice, individualmente o insieme con i Vescovi, propone quando esercita il suo magistero autentico, sebbene non intenda proclamarli con atto definitivo". In latino: "Insuper religioso voluntatis et intellectus obsequio doctrinis adhæreo quas Romanus Pontifex, sive seorsim sive simul cum Episcopis, enuntiat cum magisterium authenticum exercet etsi non definitivo actu easdem proclamare intendat".

A qualcuno potrebbe sembrare una questione di lana caprina; personalmente la trovo una questione importante: si tratta di evitare ogni possibile ambiguità nella professione della fede cattolica.