sabato 19 giugno 2010

"Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?"

Il mio post di una settimana fa “Gesú al centro” ha avuto l’onore di essere ripreso e commentato da due blog legati alla liturgia, per quanto su fronti opposti: Messainlatino.it e Liturgia Opus Trinitatis. La cosa non può che farmi piacere, anche perché entrambi dicono di condividere la sostanza del discorso. Non è un risultato da poco riuscire a ottenere, oggi come oggi, da “destra” e da “sinistra”, un consenso di fondo: significa che, nonostante le differenze di opinione spesso radicali, su certi punti ci si può trovare d’accordo.

Anch’io accolgo in linea di massima le osservazioni che sono state fatte, perché sono pienamente consapevole che le mie affermazioni non possono in alcun modo essere assolutizzate. Rileggendo il mio post, mi sono accorto che, nonostante le precauzioni, qui e là vengono fuori frasi un po’ troppo perentorie: «Inutile attendere riforme promosse dalla gerarchia; non è mai avvenuto nella storia della Chiesa. Le uniche riforme reali, durature, sono state quelle partite dal basso». Un pizzico di cautela in piú non avrebbe guastato. Forse ha ragione Padre Augé ad affermare che le riforme vengono un po’ dal basso e un po’ dall’alto: solitamente la gerarchia fa propria una spinta proveniente dalla base e poi la estende a tutta la Chiesa. Questo è avvenuto nel Cinquecento: l’opera del Concilio di Trento non sarebbe comprensibile senza la previa azione della cosiddetta “riforma cattolica”, e non sarebbe stata efficace se non fosse stata incarnata da quelle nuove realtà (penso soprattutto ai nuovi ordini religiosi) che andavano sorgendo in quegli anni nella Chiesa. Questo è avvenuto ai nostri giorni, come giustamente rileva Padre Augé, col Concilio Vaticano II che, recependo le istanze del movimento liturgico, si è fatto promotore della riforma liturgica. Personalmente allargherei il discorso anche agli altri “movimenti” del Novecento (biblico, ecumenico, ecc.). Anzi, per affrancare il Vaticano II da quella sorta di assolutizzazione di cui è stato fatto oggetto, probabilmente esso andrebbe ripensato proprio situandolo all’interno di questo cammino della Chiesa, considerandolo come una tappa — certo importante, ma pur sempre una tappa — di un “movimento” continuo suscitato dallo Spirito.

Messainlatino.it, pur condividendo “il nocciolo del messaggio”, lamenta che, dopo una diagnosi adeguata, esso vada a finire in piscem. “Rimettere al centro della nostra vita personale ed ecclesiale il Signore Gesú” sarebbe solo un vuoto fervorino, se non si traduce in un preciso programma di restaurazione dottrinale e disciplinare: «Chiarire che cosa sia un prete, antropologicamente e teologicamente, e ancor piú praticare una liturgia solida nell’impianto dottrinale e soprattutto capace di trasmettere la pienezza dell’ortodossia, sono la ricetta, il mezzo, lo strumento per ritornare a Cristo. La Messa della Tradizione della Chiesa, ininterrotta fino al ’69, lungi dal rappresentare “forme esteriori”, è l’imprescindibile, obbligato cammino “per rimettere al centro della vita ecclesiale il Signore Gesù”».

Riconosco che noi preti abbiamo il difetto di concludere solitamente i nostri discorsi con un “fervorino”: è un po’ il difetto del mestiere. Capisco che quel che si dice o si scrive possa essere sempre interpretato semplicemente come una serie di belle parole. Ma questo vale per tutti: quando parliamo, dobbiamo necessariamente servirci di parole; non possiamo fare altrimenti. Quelle che pronunciamo sono parole, e non possono essere altro che parole. Anche quelle che troviamo nel vangelo sono parole. Perché queste parole non rimangano parole vuote (flatus vocis, direbbero gli scolastici), perché esse non si trasformino in slogan, è necessario che ci sia qualcos’altro; è necessario che tra chi pronuncia quelle parole e chi le ascolta esista una “sintonia”; è necessario che ci sia qualcosa che li accomuni, qualcosa che non può essere comunicato con le parole, ma che sia ad esse previo. E questo qualcosa può nascere solo da un’esperienza di vita, da una condivisione, da un incontro. Per poter comprendere il vangelo devo prima incontrare Cristo, devo prima vivere nella Chiesa; altrimenti esso rimane per me ermetico: una serie di parole prive di qualsiasi significato.

Se dico che è necessario “rimettere al centro della nostra vita personale ed ecclesiale il Signore Gesú” e questo non viene capito, non posso farci nulla; non esistono altre parole per poter esprimere quello che intendo dire. Se quella frase rimane un “fervorino” o uno slogan, vuol dire che manca la sintonia previa, che io non posso creare: o c’è o non c’è. Se non si riesce a capire che la liturgia e il celibato sono certamente importanti, ma non sono il primum; che essi hanno un senso e un valore esclusivamente se riferiti a Cristo, il quale, solo, è «l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22:13); se non si capisce questo, io non so che farci. Se si sente il bisogno che da espressioni apparentemente astratte come “Gesú al centro” si passi immediatamente a conclusioni “pratiche”; se si confonde la realtà con i suoi segni; se si assolutizzano le mediazioni come se fossero piú importanti del mistero che esse rappresentano; io non so che fare, perché non ho strumenti per comunicare l’incomunicabile; posso solo continuare a ripetere certe parole, sapendo che da alcuni saranno comprese e da altri no. Che poi esista anche il problema, certamente non trascurabile, delle mediazioni stesse, sono pienamente d’accordo. Quel che mi interessa, in questo momento, è che esso non è il primo problema.

Ciò detto, devo aggiungere che non era questo l’obiettivo principale del mio post. L’abolizione del celibato e la messa in latino erano solo due esempi, volutamente contrapposti, scelti per far capire che, sia a “destra” che a “sinistra”, si suggeriscono ricette insufficienti; ci si ferma in superficie; non si coglie il problema di fondo. Il mio intento non era quello di polemizzare con i sostenitori dell’abolizione del celibato o con i fautori del ritorno alla liturgia tradizionale, ma di mettere in guardia da un pericolo piú sottile, che si sta diffondendo nella Chiesa senza che noi ce ne accorgiamo: il pericolo del moralismo. La campagna mediatica contro la diffusione della pedofilia fra il clero ci ha inevitabilmente portati a reclamare “pulizia” nella Chiesa. Esigenza piú che legittima: che la Chiesa sia “sancta simul et semper purificanda” (Lumen gentium, n. 8) è un dato di fatto; ma proprio per questo (perché semper purificanda) non ci facciamo illusioni che possa esistere, su questa terra, una Chiesa di soli puri. La Chiesa — diceva Papa Callisto — è come l’arca di Noè, che accoglie nel suo seno animali puri e impuri, e tutti conduce alla salvezza.

Nell’articolo di Ida Magli, che era stato all’origine del mio post, mi avevano colpito due punti:
1. «Soltanto chi è fuori dalla Gerarchia può salvare la Chiesa» (e su questo, penso, è stato detto abbastanza);
2. «Non è la pedofilia il problema piú grave della Chiesa attuale ... Il pericolo mortale è quello denunciato da [don Luigi] Giussani: la mancanza del Gesú vero nella predicazione e nel vissuto della Chiesa».

Su questo secondo punto, mi sembra, non ci si è soffermati abbastanza; ma forse è il punto capitale. Si pensa che il problema odierno della Chiesa sia la sua “corruzione” interna: immoralità, coinvolgimento negli affari, carrierismo, ecc. Che questi problemi esistano e siano problemi reali, che vanno in qualche modo circoscritti, non lo nego. Dico solo che non sono questi i problemi piú gravi della Chiesa. C’è un problema piú urgente, ma del quale ho l’impressione che non ci preoccupiamo abbastanza: la crisi di fede, da cui tutti gli altri problemi derivano. È di questo che dobbiamo preoccuparci: abbiamo ancora fede? Crediamo ancora veramente nella presenza, nella centralità, nel ruolo unico e insostituibile di Gesú Cristo nella storia e nella nostra vita personale ed ecclesiale? Gesú non si è chiesto se, al suo ritorno, troverà una Chiesa impeccabile; si è chiesto piuttosto: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18:8).